Skip to main content

La “porta povera”

Sarantis Thanopulos

 

Billy de Blasio il sindaco di New York ha promesso la costruzione di 80.000 nuovi appartamenti accessibili ai meno abbienti e la preservazione dei 120.000 già esistenti. Sono abitazioni “a fitto regolato”, frutto di un accordo tra l’amministrazione comunale di New York e i costruttori a cui si offrono delle agevolazioni fiscali e finanziamenti consistenti in cambio della destinazione di una parte degli appartamenti costruiti ad affittuari a basso reddito. Per i costruttori è una prassi conveniente, specialmente in tempi di crisi, che, tuttavia, intralcia i loro affari: i clienti benestanti, che possono permettersi i prezzi di mercato, non gradiscono gli spazi comuni extralavorativi in cui devono convivere con persone dal livello di vita inferiore al loro. Così sono corsi ai ripari. Nelle vecchie costruzioni hanno escluso gli affittuari “a fitto regolato” dalle nuove strutture di sale di giochi per bambini, piscine, palestre e giardini sul tetto. Nelle nuove costruzioni, invece, stanno realizzando due diversi ingressi: un ingresso riservato ai proprietari e agli affittuari a “mercato libero” che restringe a loro l’accesso agli spazi riservati al tempo libero e un altro, già battezzato “porta povera”, per coloro che usufruiscono di un affitto “politico”.

La politica del comune è antisegregazionista: creare condomini ad abitazione mista perfino nei luoghi più esclusivi della città mira a facilitare la convivenza, l’avvicinamento fisico tra diversi strati sociali e tra cittadini di diverso colore di pelle (tendendo conto del fatto che i bianchi sono il 75% dei proprietari o affittuari “a mercato libero” mentre la loro percentuale scende al 47% tra gli affittuari a “fitto regolato”). Tuttavia la politica dell’integrazione sbatte su una fobia del più ricco verso il più povero che non sente ragioni civili.

Gli affittuari agevolati dei condomini per ricchi di New York non diffondono disordine  sociale, non sono i “brutti, sporchi e cattivi” delle periferie degradate delle grandi città. Sono persone dal tenore di vita dignitoso e di un livello culturale decente. L’ostracismo nei loro confronti non è motivato dall’irruzione di un disagio incancrenito, accuratamente respinto ai bordi della società. Proprio per questo rivela il meccanismo nascosto di un segregazionismo emotivo che fa imputridire il malessere sociale e converte la cura del dolore in bonifica cosmetica delle città.

La coabitazione degli spazi dedicati al tempo libero, indipendentemente dalla condizione economica, economica e culturale, dalle idee politiche, dal colore della pelle, dal sesso e dalle preferenze sessuali, è un bene comune perché consente la trasformazione dell’intimità privata in intimità sociale e socializza le emozioni impedendo la loro implosione in un funzionamento “autistico”. Più la coabitazione diventa prossimità spaziale stabile, più l’incontro coinvolge i luoghi in cui si abita, più le emozioni si accordano con le varie espressioni delle relazioni di desiderio e diventano un modo condivisibile di sentire, pensare e vivere. Gli invisibili signori dell’appartamento accanto, che vivono protetti dal loro ingresso divisorio, si comportano come i bambini “asociali” che si aggrappano ai loro giocattoli rifiutando di condividerli e quindi rinunciando a giocare, a vivere. La povertà della loro vita è pari all’attaccamento a uno status sociale che sentono tanto più prezioso quanto più li isola. L’imposizione di una “porta povera” a chi vogliono tenere lontano dal proprio privilegio è una proiezione violenta della loro desolazione che i loro ingressi lussuosi differenziati intensificano.

Uccidere per non amare

Sarantis Thanopulos

 

A Genova, a Viterbo e a Brescia, questa settimana, tre donne sono state uccise a coltellate dai loro compagni per motivi di gelosia. In provincia di Napoli un uomo ha preso a martellate la moglie mentre dormiva: l’ha colpita alla testa, tenendola per il collo, e l’ha ridotta in fin di vita. Intervistata da “Il Mattino” un’esperta mediatica di psicologia forense ha attribuito la violenza maschile a stereotipi culturali trasversali che assegnano alla donna una posizione di sottomissione. Ha parlato di crimini d’odio senza amore commessi da individui emotivamente fragili e assetati di potere che agiscono in modo lucido sotto l’effetto di una gelosia possessiva che li spinge a controllare e dominare ossessivamente la vita della partner.

Queste opinioni sono largamente condivise da chi lavora nel campo. Secondo la docente di Psicologia Sociale a Caserta, il femminicidio è compiuto da chi considera la donna come oggetto di sua proprietà: “da una parte rabbia e rancore ma dall’altra un possesso totale con cui, io uomo, attraverso l’omicidio sancisco per sempre che ho potere sulla tua vita, togliendotela”. Per il responsabile del Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti di Firenze “la violenza è una scelta”.

Non è chiaro cosa si intende come “scelta” nella disumanizzazione dei propri sentimenti che produce una catastrofica distruzione dell’oggetto del desiderio. Più la violenza si diffonde più gli esperti ricorrono, per spiegare l’agire degli assassini, a stereotipi interpretativi generici. Negli uomini che uccidono le donne la violenza è direttamente proporzionale alla loro vulnerabilità psichica, a un senso profondo di impotenza che accompagna i loro sentimenti d’amore che per questo rigettano. La subalternità femminile, che non è un dato culturale ma un derivato dei rapporti di potere sociali duro da sconfiggere, finisce per esaltare la loro difficoltà di sentirsi capaci di una vera presa sulla donna che vorrebbero amare. La percezione della propria posizione nel campo erotico assegna loro un ruolo capovolto rispetto al privilegio sociale di cui dispongono: si sentono nelle mani della donna (che non pensano di poter coinvolgere), in preda al suo capriccio che li domina. Il movimento di emancipazione femminile li frastorna, aumentando l’incertezza del loro senso di identità già precario. Il fatto che il riequilibrio, stentato in realtà, dei rapporti di forza tra i due sessi tende a privilegiare modelli unisex, indifferenzianti, rende la loro confusione più devastante.

Freud spiegava il delirio di gelosia dell’uomo nei confronti della donna con la negazione di un amore omosessuale per il presunto rivale: “Non amo lui, è lei che l’ama”. L’uomo non può fidarsi del suo amore per la donna se reprime la presenza dentro di lui di un desiderio femminile rivolto all’uomo che gli fa (o potrebbe fargli) concorrenza (a partire dal padre). Questo desiderio gli dà l’intima conoscenza del proprio valore come oggetto desiderato dall’amata e gli consente di identificarsi con lei per capire le sue esigenze. La vulnerabilità sociale della posizione femminile nell’uomo (spinto nella posizione di un’eccitazione/erezione autoreferenziale), indebolisce l’efficacia della sua offerta amorosa e lo porta a proiettare sulla donna la capacità di amare. La superiorità, reale o immaginaria, della donna nel campo dell’amore che così si determina crea nell’uomo invidia e rancore ma non è per questo che lui la può uccidere. Nei casi estremi di fragilità maschile uccidere la donna significa uccidere la propria tentazione di amarla vissuta come cadere senza difese nel suo dominio.

Maschere di morte

Sarantis Thanopulos

Un articolo pubblicato sulla rivista inglese “Journal of Aesthetic Nursing” (Giornale di Assistenza Infermieristica Estetica) ha avuto grande risonanza mediatica al di là dei confini britannici. Nell’articolo si afferma l’esistenza di una crescente tendenza tra i giovani di età inferiore a 25 anni a ricorrere a iniezioni di botox per levigare la loro faccia. Helen Collier, un’infermiera specializzata in medicina estetica che è l’autrice della ricerca, sostiene  “che i reality televisivi e la cultura della celebrità stanno conducendo i giovani a idealizzare la faccia che è inespressiva, congelata”. Le sue affermazioni hanno ottenuto l’appoggio di Rajiv Grover, presidente dell’Associazione Britannica dei Chirurghi Plastici che considera la pratica delle iniezioni cosmetiche nei teenager “moralmente sbagliata”.

Collier fa sua la teoria psicologica del “feedback facciale” secondo la quale gli adolescenti imparano a relazionarsi emotivamente con gli altri imitando le espressioni del loro volto. Il punto che le interessa sottolineare è che il diffondersi della moda di una faccia svuotata della sua mimica, possa danneggiare la capacità dei giovani di esprimere e di comunicare correttamente i loro sentimenti e inibire il loro sviluppo emotivo e sociale.

Sta prendendo forma nel campo della chirurgia estetica una presa di posizione: le iniezioni di botox andrebbero fatte solo all’età in cui le rughe iniziano a farsi sentire; in età giovane sarebbero dannose emotivamente e quindi inammissibili eticamente. Questa distinzione non regge. Le facce levigate sono inespressive anche a sviluppo emotivo pienamente acquisito. Tolgono alle emozioni non solo la possibilità di essere comunicate in un modo immediato e incisivo (a cui le sole parole non bastano) ma anche la possibilità di essere pienamente vissute.

La questione etica posta da Collier è espressione dell’oscura percezione di un problema che riguarda la cultura del restauro del corpo in cui siamo immersi. Le soluzioni del problema sono incoerenti perché la sua messa a fuoco è inadeguata. Quando si introietta una cultura metterla in discussione è difficile.

I più danno per scontato che la chirurgia estetica sia un aggiustamento di bellezza (per riparazione, perfezionamento o creazione ex novo). Lo è senz’altro (con tutti i pregi e i difetti che ciò comporta) ma sotto la ricerca di un miglioramento estetico al servizio del narcisismo di vita si sta diffondendo silenziosamente un narcisismo di morte di cui la faccia congelata è un indizio credibile. Il vero significato di questa faccia, il cui successo tra i giovani ha fatto scattare l’allarme, lo si deve cercare a partire dagli adulti. Le rughe che si vogliono cancellare sono la storia dell’espressione  e della comunicazione condivisa delle proprie emozioni ma anche di un modo soggettivo, originale di viverle. Essendo parte della propria storia emotiva sono elementi viventi sempre in movimento che non si possono annullare senza intaccare  la profondità del proprio mondo interno e senza emarginare l’elaborazione delle perdite.

Si ritiene che eliminare le rughe sia un tentativo di fermare il tempo della decadenza verso la morte. Tuttavia non si ferma la morte rallentando la vita interiore, così la si accelera. La diffusione delle facce immobili tra i giovani mostra che ciò che si vuole fermare non sono le rughe e il logorio che esse testimoniano bensì il movimento della vita e il decentramento, sconvolgimento dell’esperienza soggettiva che esso comporta.   Sono maschere di morte che combattono la paura di vivere, la terribile malattia dell’anima che infesta la nostra epoca.

Guerre di religione

Sarantis Thanopulos

 

In un suo editoriale sul “Foglio”, facente seguito all’uccisione per decapitazione del giornalista americano Steven Sotloff, Giuliano Ferrara ha affermato che “con l’Islam è guerra di religione”. Le posizioni di Ferrara hanno immancabilmente questa caratteristica: il conformismo proposto in salsa trasgressiva. Con gli anni si è guadagnato un consenso stabile tra tutti coloro che non potendo tollerare il dubbio e la sospensione/sedimentazione del giudizio si dilettano con i paradossi. Da un po’ di tempo la sua vena trasgressiva (che non disdegna l’avanspettacolo) si sta trasformando in aperto squilibrio e il discorso paradossale in farneticazione: la prova che il suo conformismo stia diventando irrigidimento psichico, rattrappimento. Parabola esistenziale che segue il destino di un modo diffuso di vivere in cui la parodia si è sovrapposta al dramma.

La tesi di Ferrara è, in sintesi, questa: il nostro Dio (“incarnato, crocifisso, umile e grande”) è stato abbandonato da noi e rischia di soccombere al Dio degli infedeli (“profezia, mistica, politica, scisma”) che nessuno di loro abbandona (né i moderati né i fanatici). La soluzione proposta: una “violenza incomparabilmente superiore” alla “brutalità santificante” degli islamici. L’editoriale è, nel suo insieme, un’accozzaglia di considerazioni logicamente deboli e contraddittorie ma è proprio la sua illogicità che gli consente di passare sopra le contraddizioni e trovare la propria coerenza (che, come in tutti i discorsi irrazionali, è ferrea) nella professione di un’invincibile volontà di violenza.

La brutalità degli esseri umani non è legata alla loro religione, per quanto (a guardare la storia) nella distruttività i cristiani vantino una superiorità innegabile sui musulmani. Le religioni, indipendentemente da ciò che professano, nei confronti delle guerre sono neutrali: non le determinano e non le arginano. Tuttavia è nella loro natura la possibilità che diventino il pretesto e lo strumento della furia omicida. Ciò che nelle religioni favorisce il loro uso per scannare il prossimo è il loro assetto dogmatico e la loro funzione consolatrice. La fede in una verità assoluta, incontestabile che non ammette differenze di opinione e approcci critici è una scusa buona per scaricare sull’infedele di turno l’odio per il diverso con cui si nega la propria paura (anoressia) di vivere attribuendola alla presenza infettante di lui. E la consolazione religiosa (la soddisfazione del desiderio diventata appannaggio di un’idealità e dilazionata a tempo indeterminato), che seduce la psiche dissociandola dalla corporeità dell’esperienza vissuta, può diventare uno strumento molto efficace di anestesia nei confronti del senso di mancanza che sbilancia, sposta l’uomo verso la differenza dell’altro. Cos’altro sono gli automi che uccidono senza pietà che esseri anestetizzati?

Dietro la carneficina che continua per la sua strada, fregandosene della “guerra di religione” con cui si cerca di dare senso e legittimazione alla violenza pura, agisce l’in-differenza affettiva in cui una folle gestione delle relazioni di scambio ci ha gettati. La nostra apatia è generatrice di una incomparabile violenza invisibile che distrugge i nostri legami con la vita.  Isis la rende visibile, la materializza.

Ai nostri occhi appare come ovvio che il cancro Isis vada estirpato. Che poi si pensi che la chirurgia possa da sola eliminare il pericolo di recidive o di metastasi  l’esperienza ci dice che non sia prudente. Soprattutto se il cancro situato ai confini tra l’Irak e la Siria è la metastasi di un tumore primario che alloggia nell’Occidente.

I fatti diventati opinione

Sarantis Thanopulos

Capita guardando youtube, a volte su indicazione di amici più informati, di incappare in personaggi improbabili, seguaci di un iperrealismo contraffatto, a buon mercato. Il nome non ha importanza: il personaggio fagocita il soggetto parlante e la sua azione è impersonale, segue una corrente di accidia collettiva mascherata in vitalità. Uno dei scenari possibili è questo: negli “stati generali della cultura” organizzati dal PD viene invitata una giornalista. Di cosa dovrebbe parlare nessuno sa e, ad ascoltarla, appare chiaro che non lo sa nemmeno lei. Si potrebbe pensare che si stia arrampicando su uno specchio se nello specchio non si fosse perduta. L’eloquio è buono ma la mancanza di intima convinzione, che va a suo credito, indebolisce la sua forza oratoria per cui resta incerta. Il suo discorso non è provocatorio come erroneamente si potrebbe sospettare: fa piuttosto di lei un’incarnazione inconsapevole della dimensione amletica dell’esistenza. “Essere o non essere” avrebbe potuto essere il titolo dell’intervento di questa donna, non priva di intelligenza e di cultura, che cerca di affrontare il problema del nostro rapporto con la realtà a prescindere dalla realtà interna.

L’emblematica giornalista “à la page” dei nostri tempi attacca gli intellettuali italiani rappresentandoli nel loro insieme con la figura del “dolente erudito” (un personaggio del film “La terrazza” di Ettore Scola interpretato da Vittorio Gasman): presi nella loro percezione elitaria della realtà, e nello sconforto per la costante smentita delle loro colte interpretazioni, pretendono che “i fatti siano ignorati dalle opinioni”. Allergici a eventi televisivi come i “tronisti” e “l’isola dei famosi” sono rosi dall’invidia nei confronti di Fabio Volo che vende milioni di coppie mentre loro vendono solo ai loro amici.

Più che una concezione degli intellettuali questa è una concezione della realtà che cede troppo a esigenze di verosimiglianza. In questo modo smarrendo la verità manca di un centro di gravità e gira a vuoto. La realtà se separata dalla verità perde il suo significato che non può essere costruito in termini di quantità e misurato con gli indici di popolarità. Perché nulla si propaga con più rapidità del fatto reale che colpisce l’immaginario collettivo in superficie.

Ciò che chiamiamo “realtà” è l’incontro tra il dato oggettivo nella sua casualità -il fatto- e la nostra interpretazione soggettiva -l’opinione- che gli dà senso. La realtà non esiste se questo incontro non è “vero” e ciò non risiede in una corrispondenza certa e univoca tra l’opinione e il fatto ma nella profondità dell’effetto reciprocamente trasformativo che l’incontro ha determinato. Lo sguardo critico sulla realtà (che sarebbe riduttivo chiamare “intellettuale”) interroga la trasformazione contemporanea del mondo esterno e della nostra soggettività, andando oltre la (auto)compiacenza che sottostà alla stagnazione contemplatrice dell’esperienza.

Esaltare il puro accadimento dei fatti, aderendo acriticamente ai fenomeni e alle tendenze di massa, senza chiedersi se promuovono un cambiamento di prospettiva (come a volte succede) o se lo impediscono (come succede più spesso), significa nuotare in acque basse e non ha senso prendersela se qualcuno fa notare che per bagnare i piedi è inutile sbracciarsi. Dietro i discorsi che presentano i fatti come opinioni si nasconde una fragilità narcisistica: la paura di sbilanciarsi nell’incontro con ciò che è eccentrico alla propria identità, preferendo chiudersi in una percezione indifferenziante della prossimità, in un senso di appartenenza omologante.

L’uso paradossale delle docce gelate

Sarantis Thanopulos

Delle “docce gelate” che invadono il campo della nostra comunicazione quotidiana si può dire in partenza, a scanso di equivoci, che non tutte le opere di bene esprimono interesse per il prossimo: spesso il nostro narcisismo si traveste in amore per l’altro per risparmiare il lavoro di destabilizzazione delle proprie sicurezze che questo amore implica e restare ancorati nella più solida indifferenza. Che il conformismo potesse invadere in modo inarrestabile la nostra vita, usando per le sue esigenze la buona fede di tutti (l’atteggiamento umano più complice dei luoghi comuni), era sicuramente prevedibile da decenni ma nulla è più costante dell’attitudine a svolgere lo sguardo lontano dalle cose scomode che implicano fatica emotiva. Del conformismo le “docce gelate” sono un buon esempio: non sono un esercizio ginnico, né uno scherzo goliardico bensì un gioco di (buona) società, una prova del fatto che il ben pensare rende anche le persone intelligenti imbecilli.

Pare che farsi buttare addosso un secchio di acqua gelata voglia riprodurre, in chi sottostà a questa esperienza edificante, qualcosa della sofferenza dei malati di SLA e questo la dice tutta sulla menzogna (involontaria) che sottende questo gesto tragicomico che sostituisce il coraggio. Nessuna delle persone che potrebbero subire un danno reale da questa prova sublime di umanità (beccando per esempio una polmonite) sarebbe disposta ad accettarla e men che mai penserebbe in seguito di sborsare, in segno di riconoscenza sacrificale, parte del suo denaro. Bagnarsi di freddo certifica soltanto l’ottimo stato della propria salute che crea una distanza incolmabile tra sé e la persona malata. C’è una specie di perversa gratitudine nel donare denaro per coloro la cui presenza nel mondo testimonia che c’è chi sta (anche molto) peggio di noi, che siamo dei privilegiati. Sfruttare questa possibilità per ottenere donazioni per i malati di SLA sicuramente non sarà stato studiato a tavolino ma si sa che l’utilizzo inconscio di tutte le nostre (troppo) umane meschinità usufruisce di risorse infinite. Certo è che il meccanismo sul piano finanziario ha funzionato. Il che ci dice qualcosa di più essenziale di tante analisi economiche sulla crisi sociale interminabile che stiamo attraversando (sui meccanismi psicologici che l’hanno determinata).

La cosa più interessante in questo fenomeno di moda emblematico della (post)modernità, che ha un valore “antropologico” evidente, è il suo uso paradossale. La doccia fredda si usa tradizionalmente per combattere i postumi della sbornia e per mantenersi completamente svegli. Invece i sostenitori ambivalenti dei malati di SLA la usano per mantenersi psichicamente ubriachi o dormienti. Permangono nello stato di (auto)eccitazione o di anestesia emotiva: le due facce dell’inerzia che sottende in profondità il loro agire amoroso, simile a quello che il padre di Ofelia descriveva come fuoco che fa tanta fiamma (spettacolo) ma non riscalda.

In “L’uomo del banco dei pegni”, un film degli anni sessanta, il protagonista, un ebreo sopravvissuto ai lager, decide di ricorrere a un insopportabile dolore fisico per poter accedere a quello psichico, perforando la sua mano con il chiodo usato per infilare le sue carte. I performanti della doccia gelata, presi in una concatenazione collettiva che spersonalizza la loro azione, capovolgono inconsciamente questo procedimento: ricorrono a un dolore fisico sopportabile per tenere lontano quello emotivo. Perché alla base della sofferenza psichica opera una ferita del desiderio i cui “bollenti spiriti” vanno ghiacciati.

L’arte e la sua dimora nel tempo

 Sarantis Thanopulos

 

Jonathan Jones, esperto di arte del “Guardian”, sostiene che le sculture del Partenone, che all’inizio del 19° secolo Lord Elgin ha trasportato a Londra, dovrebbero tornare ad Atene. Per Jones queste sculture devono essere conservate nel nuovo museo di Acropoli con vista su Partenone. Qui attraverso la grande parete di vetro lo sguardo del visitatore avrebbe la possibilità di riunire le sculture e il luogo della loro antica collocazione, “realizzando una sensuale connessione tra l’arte e la sua dimora architettonica”.

La disputa tra greci e britannici sulla proprietà dei “marmi di Elgin” si situa all’interno di un contenzioso più generale tra i paesi dell’appartenenza originaria delle opere d’arte e i grandi musei che attualmente le ospitano nelle loro collezioni. Molti esperti d’arte non sono favorevoli al ritorno delle opere ai paesi della loro origine perché comporterebbe una dispersione del patrimonio artistico dell’umanità in una miriade di musei locali. Il motivo più importante, tuttavia, è un altro: le grandi collezioni d’arte, concentrate prevalentemente in alcune città occidentali, testimoniano l’evoluzione del gusto estetico e della creatività artistica negli ultimi secoli nel loro rapporto con l’antichità che queste collezioni hanno reso gradualmente accessibile a tutti a partire dagli artisti stessi. La questione è complessa e controversa perché si può obiettare con altrettanta ragione che i grandi musei sono espressione di un’interpretazione storica idealizzante dell’opera artistica che rischia di pietrificarla.

Jones pone la questione in una prospettiva corretta: il legame dell’opera d’arte con il luogo architettonico all’interno del quale è stata pensata. La dislocazione di un’opera  d’arte moderna o contemporanea da una casa privata a un museo può avvenire senza grandi danni ma quella di una statua situata in uno spazio pubblico o dell’affresco di una chiesa comporta una perdita di intensità che, quando è possibile, andrebbe evitata.

Più precisamente, la sensualità dell’esperienza artistica (anche della più concettuale), senza la quale l’opera d’arte nasce morta, richiede uno spazio di vita non statico che l’opera stessa trasporta nel tempo (esponendosi al suo effetto). Collocare un’opera d’arte in uno spazio che non è quello della vita vissuta (della vita che impegna e trasforma) è un rischio perché l’estraniazione dal suo contesto tende a renderla idealmente compiuta e a immobilizzarla. L’idealizzazione antagonizza il gesto dell’artista che, come il gesto onirico, deve restare aperto, incompiuto. L’arte sogna lo spazio vissuto, nel quale mette radici, e sognandolo sospende l’effettività dell’azione e le conferisce potenzialità: l’apre oltre l’orizzonte della caducità verso l’infinito delle possibilità dell’esperienza umana.

Nulla più dell’arte porta il nostro destino oltre la morte. Le sculture del Partenone  rifuggono ogni idealità che da secoli proiettiamo su di loro in un tentativo di consolazione. Il gesto che le ha composte resta in movimento e fa volgere il nostro sguardo all’eternità, al tempo che non passa mentre scorre. Le ombre malinconiche che avvolgono i corpi e le pieghe dei vestiti esprimono un’immedesimazione profonda con la triste dolcezza della vita che convive con la conoscenza del dolore e con la prossimità della morte. Queste sculture non si dislocano oltre la morte staccandosi, come copri estranei, dal loro contesto. Fanno dislocare nel tempo il contesto in cui sono nate e il  desiderio di vivere di cui la loro appartenenza ad esso le rende foriere, proiettandoli oltre il presentimento della loro fine.

La rosa di Gerico

 Sarantis Thanopulos

 Alla fine, e tra mille disastri, dalla “primavera araba” è sbocciato Isis: l’esercito/stato dell’Irak e della Siria. Una massa di maschi (tra cui molti adolescenti) che combattono per la resurrezione del Califfato. Il loro obiettivo, estraneo al Califfato storicamente esistito, è pura invenzione: uno stato psichico a cui pretendono di dare consistenza nella realtà esterna, materiale. Per questi combattenti puri le famiglie, le donne, i figli, le relazioni sentimentali, la dolcezza del vivere sono l’ultima delle preoccupazioni (secondo le loro stesse affermazioni): la cosa importante è uccidere gli infedeli e gli apostati e rendere grande il regno di Dio. Non sono pazzi perché la pazzia implica la presenza di una passione residua che non potendo esprimersi diventa lacerazione. Loro invece sono monolitici nelle loro convinzioni. Non sono neppure terroristi perché non aspirano a distruggere un ordine (senza preoccuparsi del vuoto che si determina, supposto magicamente rigenerativo) ma vogliono costruire un ordine che distrugge i sentimenti. Sono indubbiamente dei fanatici: l’intima convinzione del proprio agire che deriva dal legame con le le proprie emozioni e col desiderio è sostituita dall’adesione a un canone che delle emozioni e del desiderio vuole fare a meno. Tuttavia il loro fanatismo è iperbolico: il dubbio inconfessabile che sottende e alimenta la convinzione fanatica è spazzato via dall’azione. Non sono precisamente un fenomeno religioso ma un aspetto costitutivo del mondo attuale.

La primavera araba è naufragata nella pretesa dell’Occidente di sostituire una subalternità nei suoi confronti gestita da regimi autoritari, il che aveva una sua logica non priva di complicazioni, con una una subalternità gestita da società democratiche, il che era una bella contraddizione. Le conseguenze le ha pagate la prospettiva di un’evoluzione democratica dei paesi arabi che ci ha lasciato, almeno per ora, le penne.

Isis è il risultato più inquietante sul piano psicologico del fallimento storico dell’interpretazione occidentale delle relazioni di scambio che impostate come relazioni di potete e di sfruttamento disumanizzano potenti e deboli, sfruttatori e sfruttati. Nei militanti dell’Isis si riflette, diventando realtà concreta, evidente, la sclerotizzazione latente dei nostri legami con la vita, il rinsecchirsi crescente dei nostri affetti. Questi sostenitori del puro arbitrio, invocato come verità divina, sono le vittime manifeste di un vivere senza soddisfazione nel presente e senza fiducia nel futuro, dove la speranza diventa delusione in tempi rapidi e ogni desiderio ferita. Disincarnare la propria soggettività, appiattendola, è l’unico modo per sopravvivere, per non dissanguare la propria esistenza. Le differenze, che alimentano il sentire profondo, sono intollerabili e l’omologazione diventa salvezza.

Si vive come la rosa di Gerico nei deserti medio-orientali. Questa rosa è una pianta annuale con rami fitti e tenaci e fiori bianchi. Nella stagione secca muore e i rami formano un gomitolo legnoso. Imbevuti di acqua i rami si ridistendono e la pianta sembra rivivere, riaprirsi. I semi che contiene ne escono e germinano in poche ore. Così la rosa si riproduce. Per questo è chiamata anche “pianta della resurrezione”. Vivere per risorgere significa non accorgersi di essere già morti. La proliferazione dei morti viventi non è un nostro destino ineludibile ma è un pericolo serio che incombe. Non è privo di senso chiedersi se la vitalità della primavera araba, di cui ci siamo illusi, non sia stata, almeno in parte, che l’apparente rivivere di una speranza nata morta.

La ferita della soggettività e il tatuaggio

Sarantis Thanopulos

Vin Los è un canadese di 24 anni. Si è riempito le braccia, il petto, il volto e il cranio con parole tatuate: “Fame” (fama), “Guilty” (colpevole), “Iconic Face” (faccia iconica), “Hot” (caldo), “Scream” (grido) e così via. In un’intervista a “Vice Magazine” dichiara che ha iniziato a tatuarsi per avere un impatto sugli altri, diventare un’immagine da guardare. Vin, che lavora in un supermercato, ha scelto le parole che ricoprono il suo corpo su YouTube ascoltando le canzoni di maggior successo. È affascinato dal processo che crea cose celebri: da personaggi come Marilyn Monroe a prodotti commerciali come Starbucks. Vuole far realizzare i sogni di tutti e dare fama a persone nuove togliendo il monopolio del potere agli stupidi e noiosi che lo detengono attualmente. Vorrebbe morire: un giorno ha bevuto “un migliaio di caffè” per ottenere un effetto potente. È deluso dai suo genitori che si rifiutano di vederlo scioccati dal suo nuovo aspetto. Pensa che se fosse stato sfigurato in un incidente il rifiuto non ci sarebbe stato: il suo sfigurarsi sarebbe stato involontario e non una trasformazione volontaria di sé stesso.

Il discorso di Vin può sembrare farneticante: andrebbe visto, invece, come impasse senza riscatto possibile di un tentativo di emancipazione dall’insensatezza che pervade un’organizzazione sociale finalizzata alla riproduzione di relazioni di puro calcolo che stanno minando dall’interno le relazioni di scambio reale. L’emancipazione non riesce a trovare uno sbocco perché il nemico che si attacca all’esterno è un ospite colonizzatore del proprio mondo interiore. L’uomo che è diventato bacheca di parole nelle quali pezzi di slogan si dissolvono nel non senso, ha perso il suo posto in un mondo diventato fiera delle apparenze. Il modo con cui cerca di ritrovarlo assoggetta ancora di più la sua denuncia, che lo sfigura, al primato di una visibilità dissociata dal sentire profondo che ha reso alienante l’esperienza del vedere e dell’essere visti.

Esporre la propria soggettività a uno sguardo che non cerca nel suo oggetto la verità del suo desiderio bensì l’eccitazione necessaria per non essere spento, comporta il rischio di una ferita intollerabile, mortale. Restare desideranti è impresa impossibile perché lo sguardo che vede solo ciò che lo eccita uccide ciò che è vivo. Il corpo di Vin Los rivela, nel tentativo di arginarla, la violenza che soggiace alla trasformazione, supposta volontaria, del corpo del desiderio in una tela tatuata: immagini prive di substrato emotivo con cui si cerca di fissare sulla pelle, contenendole, le incisioni profonde che una lingua disumana (priva di capacità di coinvolgimento) determina nella carne viva del soggetto.

La violenza penetrante (che Kafka per primo ha intuito) del discorso anonimo che sottende un vedere che non sente, non si può respingere, una volta che si è presi nei suoi artigli, che facendola propria per esibirla come incisione che resta in superficie. Si evita di essere uccisi convertendo la vita che scorre nelle proprie vene in un veicolo del discorso uccisore. Il tatuaggio come seconda pelle, che affligge i nostri tempi, non è una regressione verso un linguaggio espressivo arcaico ma lo sradicamento da esso. L’incombere della morte psichica sulla vita è così forte che si preferisce fermare il tempo inteso come trasformazione involontaria, patita di sé nell’incontro con l’alterità che diventa apertura al mondo. Più si espande lo spazio del tatuaggio più il tempo è sospeso perché la diffusione del vissuto in superficie sostituisce il suo movimento trasformativo profondo.

I giudici e la melma

 Sarantis Thanopulos

 Secondo la corte d’appello di Milano Silvio Berlusconi non ha commesso il reato di concussione, o quello di induzione indebita, quando telefonò alla questura di Milano per ottenere una procedura difforme dalla legge nei confronti della sua protetta Ruby. Non c’è dubbio che le argomentazioni dei giudici risulteranno, quando le motivazioni della sentenza saranno pubblicate, ineccepibili oltre che fini. Lo stesso non si può dire di una argomentazione di carattere psicologico sostenuta dalla difesa dell’imputato che è francamente irricevibile (nel rispetto del diritto dei cittadini di non sentirsi presi per i fondelli). Secondo questa argomentazione, i funzionari della polizia, che hanno stravolto le prescrizioni della legge nell’interesse dell’allora premier, hanno agito per eccesso di zelo dovuto a una condizione di timore reverenziale e non sotto minaccia esplicita: di conseguenza il comportamento dell’accusato non era illegittimo.

In realtà il timore reverenziale è una disposizione ordinaria dell’animo umano che i potenti attivano regolarmente, tutte le volte che vogliono ottenere dai loro sottoposti ciò che è di loro gradimento. Chi può decidere la carriera (e il destino) di un funzionario statale, nel richiedergli una trasgressione della legge concorre in modo determinante nella configurazione dello stato di soggezione che è necessario perché la richiesta sia accolta. Più urbano è il modo in cui la richiesta è formulata più il condizionamento è forte perché la risposta negativa a una domanda gentile ma decisa (che non ammette dubbi di interpretazione) richiede uno sforzo psicologico maggiore. Una minaccia aperta può mettere chi la riceve nella posizione di legittima difesa, e favorire un suo scatto d’orgoglio, mentre il tono garbato dell’interlocutore gli fa sentire un eventuale rifiuto come reazione eccessiva che lo mette nella posizione dell’aggressore invece che in quella dell’aggredito.

Berlusconi ha inequivocabilmente usato la sua posizione per innescare un timore reverenziale nei suoi interlocutori. La sua invocazione di Mubarak non era strettamente necessaria: è parte del carattere grottesco del personaggio e della sua irresistibile tentazione di prendersi gioco delle istituzioni (a partire dai malcapitati funzionari che ha impunemente umiliato). Sennonché questa aggiunta non necessaria rivela (assieme al sentimento onnipotente di impunità) l’intenzionalità dell’azione induttiva al reato. A meno che Berlusconi non pensasse effettivamente che Ruby fosse la nipote di Mubarak: in tal caso avrebbe potuto ottenere l’assoluzione per manifesta “incapacità di intendere e di volere”, che non è stata, tuttavia, invocata dalla sua difesa né concessa dalla corte.

Si spera che, contrariamente alle voci circolanti, i giudici non abbiano sposato la tesi  dell’eccesso di zelo per timore reverenziale inoltrandosi in un terreno scivoloso dove rischiano, a loro volta, di essere considerati eccessivamente zelanti. Tuttavia, a pensarci bene, non sarebbe una cosa sorprendente: non si può escludere che siano stati soggetti a un timore che non aveva come oggetto una qualsivoglia autorità impositiva ma il disordine paventato ogni volta si prospetti un’uscita dalle acque stagnanti in cui l’Italia si sta da tempo acclimatando. Un paese in cui il fatto che il premier chieda a dei funzionari statali di violare la legge è possibile che sia reato come è possibile che non lo sia, vive in prossimità di uno stato psicologico la cui migliore definizione metaforica è la “melma”: il fluire delle emozioni si incaglia nel torbido e tutto fa brodo (brodaglia, per essere più precisi).