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La solitudine della donna di Sarantis Thanopulos

La solitudine della donna

Sarantis Thanopulos

In Danimarca un bambino su dieci nasce da donne single per inseminazione artificiale. Il più delle volte queste donne -dell’età media di 36 anni -non sono omosessuali. Ricorrono all’inseminazione dopo esperienze deludenti con uomini che non se la sentono di avere figli.

I figli possono crescere senza padre, è la tesi con cui difendono la loro scelta, facendosi forza dei tanti esempi di donne che per cause diverse (vedovanza, divorzio o gravidanza non programmata) sono state costrette a crescere i loro bambini da sole. La tesi e corretta, a condizione che la madre di un figlio senza padre per scelta si mantenga viva come donna e metta il suo bambino in rapporto con un oggetto reale o potenziale del suo desiderio. Non è facile saperlo (col rischio di cadere nella compiacenza o nel pregiudizio nei suoi confronti): la rivendicazione di un genuino interesse erotico per l’uomo, che è stato frustrato, tuttavia, da risposte deludenti, seppure fatta in buona fede, potrebbe ignorare una resistenza inconscia al coinvolgimento profondo.

L’esperienza clinica dimostra che la maternità priva di desiderio erotico verso un partner adulto, preclude anche un coinvolgimento reale nei confronti del figlio ed è la causa principale del malessere psichico individuale. La madre sostituisce l’apertura erotica alla vita con l’annessione del suo bambino al suo spazio psichico. Colma in questo modo, annullandolo, lo spazio femminile d’attesa dentro di sé, che vive come precario, a rischio di crollo, e si chiude nell’illusione di un’autarchia tanto più ostinata quanto più disperata. Il figlio o la figlia restano impigliati in un dilemma impossibile: se compiacciono la madre, sono annientati nella loro soggettività e se la contraddicono, la mettono in crisi irreversibilmente. Quando si sentono vivi temono che la madre morirà e devono inibire la vita che è in loro. Oscillano tra la paura di una perdita catastrofica dell’altro e la sofferenza per la propria rinuncia a vivere veramente.

Tutto questo non accade in famiglie con genitori omosessuali o madri single, ma nelle famiglie “normali” con genitori eterosessuali. È infinitamente più frequente che una madre isolata, slegata dall’eros, si costituisca attraverso un legame eterosessuale piuttosto che in assenza di un uomo supposto padre. La crescita progressiva delle madri intenzionalmente sole, fa, tuttavia, saltare il coperchio: dà visibilità, per chi non chiude gli occhi, alla solitudine della donna che, coperta da una convenzionale eterosessualità che non è sessualità, rende la maternità un guscio vuoto. Forse le madri single esprimono un’estrema determinazione della donna a fare del figlio il proprio destino, forse arrivano alla maternità senza tradire il loro desiderio erotico, dopo aver invano cercato un interlocutore vero. Le due prospettive sono indissociabili, descrivono l’isolamento della donna.

L’idea che sia il padre a evaporare (Lacan) si fonda su un’illusione ottica: il padre di cui si proclama il lutto è stato storicamente una figura normativa, rappresentativa di un equilibrio instabile tra relazioni di desiderio e rapporti di potere. La rottura dell’equilibrio a favore del potere, porta il padre normativo, da sempre sovrapposto al padre soggetto del desiderio, verso il suo compimento in un ideale astratto e tirannico, incarnabile da entrambi i sessi. L’astrazione/condensazione progressiva del corpo maschile in un principio di puro funzionamento meccanico di eccitazione/scarica, che lo priva della sua carnalità, fa evaporare il desiderio femminile in tutti noi. L’uomo si difende assentandosi da sé, la donna resta sola.

Immagini e immaginazione di Sarantis Thanopulos

Immagini e immaginazione

 

Sarantis Thanopulos

 

Un articolo de “L’Espresso” sul rapporto tra psicoanalisi e neuroscienze, promuove tesi la cui banalità, che è un buon viatico per la popolarità, pone, nondimeno, questioni importanti sulla produzione e l’uso del sapere scientifico in generale.

Spinta da alcuni psicoanalisti orfani della concretezza e della materialità, si aggira, da un po’, per il mondo la “Neuropsicoanalisi”: uno sposalizio tra i neuroni e la soggettività che, proclamatosi “Nuova Scienza”, è alla ricerca di notorietà e di credibilità. L’ultimo suo fiore all’occhiello è uno studio riportato nell’articolo: usando tecniche sofisticate che filmano l’attività cerebrale, si è visto che trattamenti psicoanalitici brevi producono un aumento delle connessioni tra i neuroni. Da ciò si è arrivati alla conclusione di una convalida scientifica della psicoanalisi. In realtà, lo studio è l’ennesima conferma della plasticità cerebrale, del fatto che la vita neuronale è estremamente dinamica, plasmabile dai desideri, sentimenti e pensieri a cui fa da supporto e non un’infrastruttura rigida e sovradeterminante.

Che la psicoanalisi, come tutte le esperienze emotivamente significative, trasformi le dinamiche e le strutture cerebrali, dovrebbe essere dato per scontato (cercare di provarlo denota una certa ambivalenza nei suoi confronti). Che la psicoanalisi trasformi la vita delle persone che cura, liberando la loro voglia di vivere, attraverso l’elaborazione del lutto e del dolore, questo i fotografi del cervello non possono confermarlo, né smentirlo. L’analisi quantitativa dell’attività dei sistemi neuronali e delle sue modificazioni non può dare conto della qualità affettiva della nostra esistenza se non in modo molto indiretto e vago.

Sarebbe ben strana e inquietante una società del futuro in cui gli psicoanalisti per fare il loro lavoro dovrebbero consultare un dispositivo di immagini (possibilmente wireless) dell’attività cerebrale, di modo da adeguare le loro interpretazioni alle sue risposte e non a quelle dei loro pazienti. E sarebbero assai alienati quelli pazienti che, sempre nel futuro, per verificare il cambiamento ottenuto dal loro lavoro analitico, facessero affidamento alla videoregistrazione del cervello e non alla propria esperienza.

Stentiamo a renderci conto di come una certa fiducia acritica nel “progresso scientifico”, identificato tout court con la tecnologia, stia promuovendo, in modo sotterraneo, il disimpegno soggettivo dalla vita. Ciò che la più perfetta delle tecnologie mai catturerà, per registrarlo e riprodurlo a volontà, è il gesto espressivo, creativo della soggettività che trasforma l’immagine in azione. La differenza tra la soggettivazione dell’esperienza nella seduta analitica e l’obiettività dei dati visivi delle neuroscienze, è la stessa che intercorre tra questi dati e un quadro di Giorgione o un film di Bunuel. La misura di questa differenza è l’immaginazione.

Nel lavoro psicoanalitico come nell’arte (a prescindere dal diverso valore estetico delle due cose) l’immaginazione (che rende accessibile al desiderio e al sogno la realtà) è il gesto mosso dalla passione, che diventato azione non si compie mai ma resta in movimento, gettando il soggetto in un perenne uscir fuori nel mondo.

Quale oltraggio per la Stabilità, dea non fantascientifica della tecnologia. Uno dei neuropsicoanalisti citati nell’articolo lavora a un progetto di riassetto dell’attività cerebrale che, usando un termine metallurgico, paragona alla “ricottura” di molecole surriscaldate e poi riportate a uno stato più stabile del precedente”. Ci si salvi come si può. Prima le donne e i bambini.

 

 

La sconfitta di Varoufakis di Sarantis Thanopulos

La sconfitta di Varoufakis

 Sarantis Thanopulos

 

Durante la sua breve guida del ministero greco dell’Economia, Yannis Varoufakis ha subordinato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva. L’idea buona era che la vita austera, sobria e dignitosa, nulla ha a che fare con le politiche di austerità. L’idea cattiva (che ha avuto fautori illustri a partire da Platone) era che la ragione politica coincide con il ragionare correttamente (“orthos logos”). Il pensiero che valuta e calcola tutto in modo rigorosamente logico, dà risultati eccellenti nel campo delle scienze naturali, ma nel campo del governo della Polis, delle faccende umane che ne sono la materia viva, deve fare i conti con la psicologia.

I fattori psicologici politicamente più influenti sono le passioni e la paura. Le passioni sono le forze che trasformano la vita in profondità, la spinta propulsiva di ogni cambiamento reale. La paura è il sentimento dominante, quando le difficoltà che incontra un cambiamento necessario, sfociano in una situazione di instabilità duratura, o troppo repentina, rendendo il futuro imprevedibile.

La sinistra ha promosso trasformazioni sociali profonde (nel solco dell’evento rivoluzionario o di un grande progetto di riforma) solo quando ha saputo farsi interprete di una grande passione, di un movimento di emancipazione delle masse prodotto dal desiderio, dall’apertura senza riserve e esitazioni all’inconsueto. Tuttavia, le passioni sono difficili da gestire: detestano il calcolo e sono moderate solo dal senso di responsabilità, dall’intima necessità di proteggere le cose desiderate. Slegate dalla responsabilità, si riducono a forze puramente destabilizzanti, favorendo la reazione delle forze conservative. La destra ha sempre tenuto conto della paura, incentivandola. Ciò le assegna un indubbio vantaggio tattico: la paura (specie se mescolata con la rabbia e l’odio) si può manipolare facilmente. Convogliata in vie di scarica superficiali, crea inerzia psichica che produce un senso di stabilità rassicurante.

Varoufakis non è riuscito a mantenere lo scontro con Shaueble su un piano autenticamente politico, di confronto tra passione responsabile e paura. Il suo attaccamento all’astrazione logica l’ha messo in una posizione simmetrica a quella dei suoi avversari. La debolezza della politica nei confronti dei circuiti finanziari, sta favorendo un potere “iperpolitico”, potere puro, al di là di ogni dialettica tra padrone e servo, fondato sull’eccezione dalla regola e dalla vita. Questo potere, che coniuga l’azzardo con l’arbitrio, è l’espressione generalizzata del principio: “Testa vinco io, croce perdi tu”. Orientato a produrre profitti, tanto insensati tanto esponenziali, non è capace, per costituzione, di risolvere nessuno dei problemi umani.

Si può subire la prepotenza del più forte senza essere per sempre sconfitti. La sconfitta di Varoufakis è nell’aver fondato un progetto politico sul primato improprio della logica sulle passioni, le incertezze e le paure che attraversano l’Europa. La sua critica a Tsipras deriva dalla fede a una logica stringente, vissuta come verità, che è figlia di orgoglio intellettuale. Dimentica che in politica una teoria, anche la più intelligente, è vera se produce una trasformazione reale. Tsipras è restato nel campo politico, difendendo la passione europea del suo popolo (l’amore per la pace e la democrazia) e rispettando le sue angosce. Può perdersi in una serie di compromessi interminabile, ma non ha altra strada per resistere all’eccesso di arbitrio che avanza nel nostro mondo. Questo arbitrio, che riduce la vita in quantità manipolabili, nel confronto puramente logico non teme rivali.

Antigone e l’Europa

Antigone e l’Europa

 Sarantis Thanopulos

 

Lo spettro di Antigone si aggira per l’Europa. L’opera tragica di Sofocle di cui è protagonista, è ambientata a Tebe, città nemica di Atene, e ha come suo preambolo la guerra fratricida raccontata in una tragedia celebre di Eschilo: “Sette su Tebe”. La questione politica messa in scena è l’interdipendenza tra la guerra civile e la guerra tra città nemiche, tra il conflitto all’interno della città e il conflitto tra cittadini e nemici esterni.

La figura di Polinice unisce in un solo destino il fratello e il nemico, fa dell’uno il fondamento dell’altro. Solo chi è fratello può diventare nemico e solo con il nemico può essere stabilito un rapporto di fraternità che non sia aggregazione tribale basata sull’omertà e la collusione.

Nella sua difesa del fratello traditore Antigone non difende i legami di sangue contro le leggi della Polis, ma si incammina nella direzione opposta. Affermando che è nata per amare e non per odiare, fa professione di desiderio e sottomette l’odio alle ragioni dell’amore. Più precisamente lega l’amore e l’odio all’elaborazione del lutto, alla sepoltura.

L’amato è sempre amico/nemico del nostro desiderio, non sarebbe libero e desiderabile se così non fosse. L’odio ci fa soprattutto riconoscere che non è un’estensione inerte della nostra soggettività, una nostra proiezione. Per amarlo bisogna patire la sua morte come oggetto mosso dalla nostra volontà, per ritrovarlo integro nella sua differenza da noi. È doloroso ma indispensabile seppellire Polinice come sangue del nostro sangue, per poterlo riconoscere nella sua irriducibile libertà di esserci nemico.

Il lutto, la sepoltura separano ciò che è morto alla vita, l’altro come riflesso di sé, clone narcisistico della propria esistenza, dall’altro come oggetto di desiderio, dotato di una sua autonomia. La Polis deve saper seppellire ogni tentazione di abolire il conflitto, vocazione catastrofica di autoreferenzialità, di omogeneità di idee e di sentimenti. Questo la estende oltre i suoi confini. La obbliga ad ampliare lo spazio della fraternità al di là delle sue mura e, contemporaneamente, ad ammettere l’inimicizia nel suo spazio interno. Il nemico esterno riflette il suo bisogno interiore di libertà e il legame di scambio che include lo scontro con lui restituisce alla fraternità cittadina il suo vero significato.

La prosperità della Polis sta nella sua relazione di desiderio (in cui l’odio è al servizio dell’amore) con ciò che la circonda. “Il Desiderio siede accanto alle Leggi possenti” fa dire al coro Sofocle. Le Leggi della città non devono entrare in contraddizione con il desiderio, la Polis si fonda sulla loro collaborazione. Tebe, Atene, Argos o Sparta: non questa o quell’altra città, ma ogni città, ogni entità democratica può affrontare l’illegalità, l’apoliticità barbarica solo espandendo la sua esistenza fino a far coincidere l’idea stessa dell’umanità con la coppia inimicizia/fraternità, fondamento vero della democrazia.

La Polis chiamata Europa si sta fatalmente risucchiando in un’idea della vita comune che privilegia l’uniformità, che interpreta la legalità in termini di ripudio delle differenze. Fa del fratello/nemico interno l’oggetto di un’espulsione mistificatrice che serve soprattutto a mascherare la sua incapacità di stabilire reali relazioni di scambio con chi preme ai suoi confini. L’ombra di Creonte grava sulla pretesa di sostituire la dialettica dello scambio con il fratello/nemico con una dialettica di inclusione/esclusione che trasforma le relazioni umane in un conflitto all’ultimo sangue, senza fratelli e nemici, in cui i morti seppelliscono i vivi.

Ortoressia del vivere

Ortoressia del vivere

Sarantis Thanopulos

L’anoressia è un disagio psichico così rappresentativo della società che si affaccia al nuovo millennio, da poter essere usata come metafora del suo modo di funzionamento più profondo. Rappresenta la regressione dell’isteria patologica verso un crinale melanconico e porta il narcisismo, che ha dominato la scena sociale nella seconda metà del novecento, ai suoi aspetti più mortiferi, devitalizzanti.

È una perversione della soggettività che fa della negazione del desiderio la ragione prima dell’esistenza. Censura severamente la relazione erotica con la vita, nel punto in cui essa è ferita profondamente. Sancisce un disconoscimento radicale dell’oggetto desiderato e si difende dal conseguente effetto depressivo, promuovendo una trasformazione fallica estrema della struttura psicocorporea, che va ben al di là dell’androginia per raggiungere la sua più profonda essenza.

Per quanto si manifesti come rifiuto del cibo, il bersaglio vero dell’anoressia sono l’intensità, la profondità e l’espressività erotica della struttura psicocorporea, che è prosciugata e contratta nella sua componente femminile. Il dimagrimento estremo tende verso la configurazione di un’esistenza spogliata della sua materia viva e funzionante come principio spirituale, energia pura. La psiche tende a dissociarsi dal corpo ed è sedotta dall’ideale di un’esistenza autocratica che può sfidare la morte.

L’anoressia è affrontata come patologia dell’alimentazione perché si perde di vista che ciò che è represso, in realtà, è il desiderio sessuale alle sue radici. Il lattante non si alimenta per crescere sano, né per mantenersi in vita. Sono prospettive che non gli appartengono: il concetto della nutrizione gli è estraneo e ciò lo protegge da una precoce irruzione dei parametri oggettivi della realtà nella sua vita. La cessazione dello stimolo della fame è un aspetto importante, ma non è l’aspetto più significativo della sua esperienza di allattamento. Vivere esperienze direttamente piacevoli è più importante dell’evitare il dispiacere.

Il bambino può avere una buona poppata, diceva Winnicott, e, nondimeno, sentirsi truffato, se è mancata la soddisfazione sensuale, erotica nell’incontro della sua bocca con il seno della madre. La piacevolezza del latte è sovradeterminata dalla qualità sensuale del seno materno, a cui resta per sempre associata, e per questo il nostro rapporto con il cibo ha sempre una componente erotica (come la sessualità ha sempre una sfumatura “alimentare”). Nella negazione del piacere che procura il cibo, il soggetto anoressico colpisce la sua associazione con il piacere erotico e quindi l’attivazione del proprio desiderio che lo esporrebbe a un’intollerabile frustrazione.

La cura dell’anoressia secondo parametri puramente cognitivi che puntano sull’interesse materiale (ai valori nutritivi e di salute) e ignorano la ferita della soggettività desiderante, è fallimentare (senza nulla togliere all’impegno necessario dei medici a garantire la sopravvivenza del malato). Crea un compromesso minimo che da una parte garantisce un’attività limitata di vita e dall’altra salvaguarda le ragioni dell’anoressia: la prevalenza dello scheletro sulla carne viva.

La cultura dominante nella terapia dell’anoressia, che tratta i soggetti che ne soffrono come una madre che cura i figli privilegiando i fattori quantitativi, riflette l’ossessione della dieta corretta, l’ “ortoressia” del vivere che della società attuale è una struttura portante. La coltivazione di un corpo sempre più disincarnato nella sua deriva salutistica, che non riesce a vedere nell’anoressia il suo perturbante riflesso.

Lontano da dove

Sarantis Thanopulos

Claudio Magris è intervenuto sul caso greco con affermazioni impulsive. La loro umoralità rivela le ragioni culturali e psicologiche che sottendono la guerra civile non dichiarata tra il Centro-Nord e il Mediterraneo all’interno dell’Europa. Avendo attribuito a Tsipras la pretesa che la Grecia abbia da parte dei suoi creditori un trattamento di riguardo per il suo glorioso passato, Magris impartisce ai greci, e di striscio agli italiani, di oggi, una lezione, gratuita ma coerente con le sue reali motivazioni: il passato di Atene o di Roma non assolve nessuno e men che mai garantisce un altrettanto grande presente.

I discorsi lapalissiani sono spesso prodotto di rimozioni che emergono con i lapsus. “Quando – dice Magris – si ha un’altissima civiltà nel proprio Dna, essa si rivela non nella citazione del passato, ma nel modo in cui si affrontano i problemi del proprio presente”. Gli inglesi, esemplifica, sono stati i degni eredi di Roma e non Mussolini. Conclude definendo la ribellione dei greci a cinque anni di inutili sacrifici come hybris tignosa e truffaldina.

L’illusione che un popolo abbia nel suo DNA un’altissima civiltà, è la radice ideologica del razzismo. Seguendo questa prospettiva diventa comprensibile perché Magris scomodi Mussolini. Il rimosso diventa evidente: la Germania nazista.

Per un cantore, raffinato e profondo, della Mitteleuropa, è motivo di imbarazzo serio toccare questo punto. Come conciliare la grande cultura tedesca con la barbarie del nazismo?

La leadership tedesca determinata a spezzare le reni della Grecia in crisi e l’iniquità manifesta nel diverso trattamento del debitore nel giro di pochi decenni, attivano fantasmi dimenticati, non sufficientemente elaborati, che diventano una spina. L’eccesso di veemenza dei governanti tedeschi contro i greci, nega la loro delegittimazione interiore di fronte al riaffacciarsi degli spettri.

Nè il passato glorioso (remoto) assolve, né il passato infamante (più recente) condanna. Tuttavia, l’attuale classe dirigente tedesca non è all’altezza di un presente che sa riconoscere il dolore da cui è nato. Pesano su questa difficoltà, che è all’origine del riaffiorare del nazionalismo tedesco, l’antico e mai risolto dolore dell’umiliazione subita dopo la prima guerra mondiale, che ha favorito il nazismo, e il dolore più sordo di essere rimasti soli con un insostenibile senso di colpa, senza che la civiltà europea, nel suo insieme, si fosse fatta carico della sua responsabilità nello sterminio degli Ebrei (degli errori storici commessi da tutti).

Tutto questo si scarica sulla storica incomprensione e reciproca mistificazione tra il popoli del nord e quelli del mediterraneo, che si riflette nella loro diversa percezione della grande civiltà greco-romana. Civiltà che, come Marino Niola ha ricordato in un suo bell’articolo, i grandi idealisti tedeschi hanno trasformato in un sistema di valori immobile nel tempo, avulso dalla specificità, fisicità climatica e geografica in cui è nata.

Ciò che unisce modi diversi, ma non inconciliabili, di mescolare ragione e desiderio, è la loro comune determinazione dal conflitto tragico (il contributo europeo più importante all’umanità nel suo insieme): il dilemma impossibile tra l’eccesso di passione e la sua assenza (eccesso di norma). Questo conflitto si risolve solo con lo schiudersi alle ragioni dell’altro: il costante mettersi nei suoi panni per poterlo incontrare. Si può dire, ispirandosi al titolo di un libro importante di Magris, “Lontano da dove”, che il nostro destino è vivere in viaggio in mezzo a luoghi insieme antichi e nuovi. Lontano/vicino da/a ogni dove.

Datemi la morte

Sarantis Thanopulos

In Belgio una ragazza di 24 anni, con un’infanzia molto difficile e gravemente depressa, ha chiesto di morire per eutanasia. Tre medici hanno espresso parere favorevole, avendo valutato come insopportabile la sua sofferenza.

La decisione dei medici belgi porta la questione dell’eutanasia ben al di là dei confini entro i quali è stata finora applicata: per porre fine a malattie incurabili, incompatibili con un livello di vita accettabile, e a stati vegetali di esistenza senza speranza di recupero. Per soddisfare, anche, il desiderio di una “bella morte”, organizzata come un lungo sonno dopo una vita vissuta pienamente.

Una ragazza all’inizio della sua vita adulta e sana fisicamente, dovrebbe essere accompagnata alla morte per malattia dell’anima. Come se non fosse mai nata veramente. Valutazione irresponsabile dei medici, scelta fuorviata dall’illusione, in cui vive un’inconsapevole arroganza, di poter assumere la responsabilità di una decisione che, in realtà, non competeva loro.

Cosa ha spinto i tre “esperti” a stabilire che una ragazza di 24 anni non ha nessuna possibilità di uscire dall’inerzia depressiva per il resto della sua vita naturale? Questo può essere molto probabile, ma cosa induce a stabilire con certezza matematica che un rimedio, uno spiraglio possibile e imprevedibile, non esista? Per la natura del loro oggetto di conoscenza, la psichiatria e la psicoanalisi dispongono certamente di un sapere prognostico, ma non di una predizione esatta e vincolante del destino esistenziale di un essere umano (per nostra fortuna).

La possibile impasse finale tra un impotente, inevitabilmente violento, accanimento terapeutico e una sofferenza insopportabile, ribelle ad ogni trattamento, può risolversi solo con il suicidio, atto supremamente tragico con cui il soggetto si re-impadronisce del suo destino perduto. Ossimoro catastrofico che gli riassegna, nondimeno, un’assunzione di responsabilità che nessuno gli può sottrarre.

Delle persone intrappolate in una sofferenza che può condurre al suicidio, solo una minima parte lo commette effettivamente. Inoltre, spesso si tolgono la vita persone insospettabili, mentre soggetti ad alto rischio non ci arrivano mai. Concedere l’eutanasia a una giovane perché depressa, è stato un inconfessabile atto di liberazione dei curanti dalla difficoltà di convivere con un dolore intrattabile e incontenibile, perciò contaminante.

Il rischio è che la prevenzione del suicidio si trasformi nel suicidio assistito come prevenzione della contaminazione: passare dalla difesa del diritto del sofferente di vivere (che può diventare accanimento) alla difesa del diritto dei non sofferenti di non farsi contaminare dal dolore. Una lettura monolitica dell’esistenza in cui l’essere umano è predeterminato fin dalla nascita. Per chi è caduto nel campo sbagliato del destino, all’infelicità non ci sarebbe altro rimedio che la morte felice.

A un livello inconscio, la ragazza che si è appellata all’eutanasia, ha chiesto ai suoi genitori, per interposta autorità, di darle la morte: toglierle la vita che non riesce a vivere perché la percepisce come minaccia per loro. Il sacrificio, che non si deve accogliere, è anche una denuncia, fatta di amore, dolore e odio, che andrebbe ascoltata. C’è una domanda di vita, dietro la richiesta di morte.

Alla difficoltà di dare a un problema etico una risposta netta, non si può ovviare con una risposta manichea. Stiamo smarrendo la capacità di sostare nella tensione tra due prospettive ugualmente necessarie e di usare il suo effetto catartico, trasformativo.

La scarichiamo nella decisione che più ci deresponsabilizza.

Meglio la scossa che niente

Meglio la scossa che niente

 

Sarantis Thanopulos

 

 

Non molto tempo fa un gruppo di psicologi dell’Università della Virginia ha pubblicato su “Science” i risultati di un esperimento sulla capacità di restare soli con i propri pensieri. I partecipanti all’esperimento hanno trascorso brevi intervalli di tempo – dai 6 ai 15 minuti – chiusi da soli in una stanza spoglia. Non dovevano far altro che riflettere o sognare ad occhi aperti. Tutti i partecipanti hanno trovato l’esperienza  sgradevole e non hanno potuto eseguire il compito assegnato. Nelle varianti dell’esperimento in cui l’esercizio si era svolto in casa, un terzo di loro ha ascoltato musica o ha usato il cellulare. Il 67% dei maschi e il 25% delle donne pur di sfuggire dalla situazione di disagio si sono auto-somministrati una scossa elettrica per mezzo di un’apparecchiatura che era stata lasciata nella stanza dell’esperimento.

I ricercatori hanno interpretato i dati rilevati partendo dall’assunto che la mente è progettata per entrare in contatto con il mondo esterno. Secondo il loro coordinatore “senza una formazione in meditazione o tecniche di controllo del pensiero, la maggior parte delle persone preferisce impegnarsi in attività esterne.” Conclusione generica conformemente all’assunto su cui si basa.

Lo psicoanalista britannico di origine indiana Masud Khan ha parlato della capacità di “stare a maggese”. Il termine è stato preso in prestito dall’agricoltura. Designa lo stato dei terreni che periodicamente sono messi a riposo per ritrovare una fertilità piena: vengono arati e concimati ma non seminati. La tecnica incrementa la loro permeabilità. Gli esseri umani, secondo l’intuizione di Khan, hanno un analogo bisogno di mettere periodicamente a riposo la finalizzazione della loro esperienza, per sostare in uno stato di attesa in cui la lavorazione delle proprie emozioni e pensieri va in profondità senza affrettarsi alla loro estrinsecazione, senza legarsi precocemente a un’attività.

L’esigenza non è tanto riflettere attorno a una questione concreta o sognare ad occhi aperti quanto permanere in stati mentali ed emotivi che non inseguono forme e contenuti precisi ma indugiano nella sedimentazione dei vissuti e nell’espansione graduale del desiderio. Questa è la condizione di maggiore permeabilità della vita interna alla vita esterna: la base del pensiero/gesto creativo, della intensità affettiva e dell’intimità dell’esperienza erotica.

La ricerca degli studiosi americani formalizza un’esperienza comune: basterebbe guardarsi nelle sale d’attesa degli aeroporti o delle ferrovie, incapaci come si è di fermarsi un solo minuto tra giornali da leggere, telefonate da fare e caffè da consumare. L’agire coatto, che è diventato l’organizzatore sociale per eccellenza, sta risucchiando la nostra capacità di godere degli intervalli trasformandoli in “tempi morti”, nell’ambito della più grande mutazione antropologica della nostra epoca.

Il dato davvero rivelatore dell’esperimento è l’auto-somministrazione della scossa. La piccola sgradevole tensione ottenuta sposta il desiderio in superficie allontanandolo dallo spazio della sua gestazione: lo smarrimento della capacità di coinvolgimento profondo che si apre al mondo dall’interno crea un vuoto di vita che si compensa con la sensazione di essere vivi attraverso uno stato d’allerta. Non sorprende che sia un atteggiamento nettamente più diffuso nei maschi: l’erezione/eccitazione delle emozioni (che sottende il controllo costante del proprio corpo e della sua relazione con il mondo) alimenta un loro assetto difensivo e li fa sentire vulnerabili di fronte ad ogni apertura all’imprevisto.

L’amore ai tempi di internet

di Sarantis Thanopulos

 

Si è svolta lo scorso weekend a Pisa la III edizione dell’Internet Festival, organizzato dalla Regione Toscana. Tra i temi dibattuti “l’amore ai tempi di internet”. L’amore che nasce e vive via internet è oggetto di comprensibile scetticismo (diffuso tra i partecipanti al festival) che, tuttavia, sembra mal orientato. Si è inclini a considerare la relazione amorosa remota, che rende il legame necessariamente casto, “platonico”, come priva di sostanza, amore fantasticato, illusorio. Se questo fosse vero dovremmo sbarazzarci di tutta la grande tradizione dell’epistolografia amorosa e confinare Abelardo ed Eloisa in un sonno infinito privo di desiderio e di memoria. Così non è per fortuna: può esserci molta più profondità di coinvolgimento e di sentimenti nelle storie in cui i corpi non hanno la possibilità di incontrarsi, per motivi estranei alla volontà degli amanti, che in tanti avvinghiamenti che creano molta eccitazione e poca soddisfazione reale.

 

L’uso dell’internet nella comunicazione erotica denota, invece, una relazione perversa nel suo significato quando l’incontro virtuale si sostituisce a quello reale esiliandolo. Il “cattivo uso” dell’internet è oggetto di biasimo generale che solitamente sfocia in un atteggiamento educativo che trasforma l’effetto in causa. Non è l’uso improprio della comunicazione online, come delle innovazioni tecnologiche in genere, a creare una patologia esistenziale ma, al contrario, è un disagio psichico non riconosciuto a causare l’uso distorto della tecnologia. Nondimeno la tecnologia ha in sé qualcosa che rende possibile un rapporto morboso con essa. È facile intuire che le facilitazioni della vita materiale possano favorire un’indolenza psichica ma l’aspetto più problematico (e potenzialmente inquietante) è un altro: la tecnologia opera su valori quantitativi (il supporto materiale dell’esistenza) e le è estraneo il concetto di qualità affettiva della vita. Questo fa di essa lo strumento privilegiato della tendenza dominante di privilegiare un bisogno psichico di stabilità che è tutto centrato sul sollievo immediato e avversa la sperimentazione, lo sbilanciamento rispetto al proprio centro di gravità e ogni tipo di trasformazione profonda.

 

Essere compulsivamente connessi con gli altri, con l’obiettivo inconfessabile di restare incontaminati emotivamente, permette di trasformare la qualità dei sentimenti, che implica coinvolgimento e esposizione, in quantità di contatto psichico inerte. L’amore è frutto della nostra angoscia di perdita (Proust), nasce dalla discontinuità della presenza dell’amato che, attraverso il senso di mancanza, scioglie le riserve e le difese e libera la strada al desiderio. La discontinuità come premessa necessaria della relazione amorosa è ciò che i forzati della connessione compulsiva cercano di annullare. Perché se da una parte l’amore, che conosce e ama il lutto che lo fa nascere, è la miglior cura dell’angoscia di perdita, dall’altra la può generare nella forma del dilemma tragico di una scelta inesorabile tra sé e l’altro. Il punto critico è quello in cui l’affinità -che dimora nella prossimità- si estende verso la differenza -la lontananza- che la porta oltre i suoi confini e la trascende. L’attrazione tra gli amanti raggiunge il massimo della sua intensità dove la prossimità sporge fino a emigrare, gettarsi nella lontananza ma in un’epoca che incoraggia l’immobilità, perché il movimento crea conflitto, l’esposizione che ama l’attesa e l’intervallo può essere percepita come frana. Questo crea angoscia che la connessione perpetua tampona ma non risolve: la mantiene attiva.

Il dono e la carità

Sarantis Thanopulos

 
 

Con un decreto di legge approvato dal Senato il 4 Ottobre, festa di San Francesco, è stato dichiarato “giorno del dono”. La prima volta di questa nuova ricorrenza è stata celebrata in tutta l’Italia con dibattiti e manifestazioni culturali. Il dono è spesso oggetto rituale di scambi strumentali o inutili, privi di intensità emotiva, e re-interrogarsi sul suo significato potrebbe essere una cosa buona. A condizione di non confonderlo con la carità, il soccorso compassionevole dei bisognosi, che si sta affermando come la più autentica disponibilità nei confronti degli altri (complice l’aumento della diseguaglianza).

Nella sua celebre definizione dello scambio di doni, Marcel Mauss propone una sequenza di tre momenti: dare – ricevere – ricambiare. Il primo momento è attualmente in grave difficoltà perché richiede un’esposizione all’altro senza garanzie preventive che può essere definita, nei termini di un ossimoro, come reciprocità unilaterale.

Il dono è in primo luogo un atto d’amore. Ha le sue radici nel primo amore del bambino: la passione per la madre. L’amore non è autentico, vero senza una componente passionale che ignora le ragioni dell’oggetto amato e aspira a un suo possesso assoluto, senza limiti e preoccupazioni. Questa pretesa della passione di ignorare la soggettività del suo oggetto mette in discussione la sua permanenza perché un oggetto privo di una propria autonomia e volontà e ridotto a cosa inerte, manipolabile, non è realmente vivo e desiderabile. Se vuole persistere, la passione deve proteggere ciò che ama, assumendo la responsabilità dei suoi eccessi. L’amore responsabile riconosce l’autonomia del suo oggetto a costo di una propria limitazione che è anche esposizione alla passione dell’altro: ciò che, superata una soglia, non si può ottenere per possesso diretto senza distruggere l’oggetto, lo si ottiene lasciandosi possedere da esso. Alle sue radici il dono è esposizione, dono di sé che comporta il rischio di essere strumentalizzati. Questa esposizione -donarsi alla possibilità di una reciprocità anelata ma per nulla scontata- non è ancora un dono per l’altro. Diventa tale se l’altro accoglie la relazione d’amore che la donazione di sé insegue, senza abusare del donatore.

Nella relazione d’amore il dono di sé diventa dono di libertà all’amato: libertà di ricambiare secondo un modo proprio, personale di ricevere e di amare, senza essere determinato dal desiderio dell’amante (libertà di essere interamente nella relazione senza essere interamente dell’altro). Questa prima forma di dono reciprocamente riconosciuto come tale, che istituisce l’incontro tra gli amanti come luogo della più intima e devota delle cure, è la premessa dello scambio di doni come offerta d’amore: donare l’uno all’altro il proprio coinvolgimento che rende possibile la più compiuta (mai assoluta) realizzazione del godimento. Il passo successivo – la più evoluta configurazione del dono nella relazione amorosa- è la possibilità/libertà del soggetto amato di amare altro dal soggetto amante.

Il rischio connesso al dono è annullato nell’atto di carità: con esso si proietta nell’altro la percezione della propria mancanza e provvedendo al suo bisogno materiale si crea l’illusione di sfamarla. Il sentimento di povertà (espressione della propria condizione desiderante) si trasforma in presunzione di ricchezza e in questo modo viene concepita come generosità la riluttanza a esporsi. Il dono non è magnanimità ma dichiarazione rischiosa di povertà: “Mi dono a te perché mi fa sentire povero la tua mancanza”. Donare è la generosità in cui l’umiltà diventa coraggio.