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Famiglie che uccidono

Se una sola uccisione potesse saziare questa mano, non ne avrei perpetrata nessuna. Anche uccidendone due è un numero troppo piccolo per il mio odio. Se qualche creatura si nasconde ancora nel mio grembo, mi frugherò le viscere con la spada e la estrarrò col ferro.” (Medea vv 1009-1013)

La famiglia può uccidere. La casa da “nido” può diventare trincea di violenze, soprusi e maltrattamenti. Questo ci sorprende perché va contro ogni logica intuitiva e popolare.

Non ci sorprende invece pensare a una violenza perpetrata contro chi è “straniero”, contro chi non ci è familiare.

Il conflitto lo si immagina più facilmente nel campo delle grandi differenze, laddove due soggetti (popoli, individui, partiti, squadre… ) siano esplicitamente e intuitivamente “lontani e stranieri” per luogo d’origine, tradizioni, linguaggi e ideali.

E in famiglia allora come mai? Luogo della vicinanza e dell’intimità, della similarità e dell’identificazione? Se in famiglia per definizione non si è “stranieri”, ma “familiari” quale paradigma a sostegno delle “guerre interne”?

Accade spesso che ciò che si agita nelle famiglie sia proprio un’impossibilità a far emergere un’individuazione dei propri membri cioè quella quota di estraneità che tuteli gli uni dagli altri. La difficoltà che spesso emerge nei nuclei familiari è proprio quella di sapersi disidentificare, di riuscire a restituire a ciascun membro il proprio “confine territoriale”.

Non si tratta solo di un problema “concreto”, cioè di non invadere troppo lo spazio dell’altro (con il corpo, con le richieste, con le aspettative, con le intrusioni) quanto di un discorso simbolico. Sappiamo che la distanza fisica, spaziale, contingente, non basta a scindere legami. Possiamo continuare a sentirci legati a qualcuno anche a distanza di anni o di chilometri.

I legami che tengono insieme i membri di una famiglia sono intrisi dei “fantasmi” di ciascun membro, cioè, dicendolo in modo estremamente semplificato, delle fantasie inconsce di ciascun membro sull’altro. Ognuno “porta dentro di sé” una rappresentazione inconscia di ciò che l’altro (figlio, moglie… ) rappresenta per sé stesso.

Tale rappresentazione inconscia influisce nella tessitura e nella distruzione dei legami con l’altro molto di più di quelle che sembrano le scelte obiettive e coscienti (mi piaci per questo, questo, quest’altro ti odio per questo e per quello). Fondamentalmente la vita di ciascuno di noi è un rebus in cui i nostri comportamenti e gli eventi che ci accadono sono soltanto le “vignette” visibili dietro cui si nasconde il discorso inconscio con cui le abbiamo “disegnate”.

Per continuare con la metafora del rebus prendiamo il mito di Medea che uccide i figli per vendicarsi di Giasone, il marito che la lascia per prendere in sposa Glauce. Quale discorso regge la scena? Perché annienta proprio i figli? Proprio ciò che è sangue del suo sangue, ciò che apparentemente sembra più “vicino”, più familiare, più simile alla sua carne?

Medea uccidendo i figli segnala una totale impossibilità di riconoscere e elaborare l’esperienza dell’abbandono e della distanza, sentita come invivibile, come assolutamente non elaborabile per una futura trasformazione di vita. Per Medea non c’è possibilità di immaginarsi un’evoluzione che la traghetti in un “dopo Giasone”. Uccidere i figli che sono i suoi oggetti d’amore è un tremendo omicidio che lei compie per “fermare” il tempo, per annullare, nel punto preciso dell’abbandono, ogni possibilità di crescita.

La dipendenza con loro è primordiale e assoluta: Medea, tradita e abbandonata, non consente che i figli vivano fuori di lei e li riannulla in sé.

Medea non opera una distinzione fra le rappresentazioni inconsce dei figli e del marito (da cui lei sente di dipendere) e il loro essere individui reali, separati, con un’altra consistenza. Le rappresentazioni, i fantasmi inconsci di Medea travalicano e travolgono il reale dei corpi. Medea compie un passaggio all’atto dei suoi fantasmi. Ecco che ella non “poteva” uccidere solo se stessa, perché a “guidarla” era quella rappresentazione di un legame assoluto e immaginario con i suoi tre oggetti d’amore: Giasone e i suoi due figli. Quando uno di essi decide di mancare all’appello nella realtà (Giasone), creando una frattura, Medea è “costretta” per via dell’angoscia a far fuori tutto il nucleo, a riportarlo nel limbo. Il gesto di Medea è disperato.

Medea ci turba, come turbano le cronache ogni volta che leggiamo di un ennesimo caso di violenza fra le mura domestiche. Tanto più che ogni volta i ritornelli che sentiamo dai media sono “era una persona tanto per bene”, “sembrava una famiglia tranquilla”, “sembravano tanto uniti”. Queste affermazioni segnalano di come in realtà molto spesso la facciata di “perbenismo e di unione” celi un’aggressività e una quota di estraneità verso i propri familiari che rischia di esplodere in un agito se non viene riconosciuta e maturata. A dire che il concetto di Unione con l’altro, è un’idealizzazione, è un miraggio pericoloso e non evolutivo.

L’unione , quando non riesce a fare i conti con il fatto che siamo prima di tutto “stranieri” ai propri stessi partner o figli, può implodere in un aggressione distruttiva. L’unione è qualcosa che appartiene all’ordine della concettualità, della fantasia, della rappresentazione. Due soggetti non potranno mai riunirsi in un paradiso mitico. Con la nascita viene sancito il taglio. Il “Fare uno” è un impossibile da riconquistare (come quando eravamo nel grembo materno) sebbene spesso la fantasia collettiva che guida gli immaginari popolari vada nella direzionedel ri-unirsi: “siamo due cuori e una capanna, l’altra metà della mela, siamo una cosa sola…”.

Molto spesso i figli o i partner possono assurgere nelle nostre fantasie inconscie elementi di saturazione di nostri “buchi”. E’ chiaro che la separazione da loro talvolta è talmente impensabile da potare a compiere atti violenti.

Vedendola da questo punto di vista ciò che è “familiare” cessa di essere solamente intriso di romanticismo e il concetto di “estraneità” cessa di suscitare turbamento, essendo una quota di estraneità fondamentale per la sopravvivenza stessa della famiglia e della comunità tutta.

La categoria del “familiare” anzi diventa suscettibile di un’operazione perturbante: da un lato alimenta le fantasie di potersi riunire finalmente con qualcuno, di potersi sentire all’unisono, sotto lo stesso tetto, come dentro lo stesso utero. Dall’altro il familiare è qualcosa che ci chiama urgentemente a fare i conti con la caduta dell’illusione dell’adesività pena il collasso della sistema famiglia in un’involuzione aggressiva dove ci si annienta a vicenda per tornare al punto zero.

Il primo vero “atto interculturale” avviene (o non avviene) in famiglia, nel riconoscimento che ciascun membro è portatore di un’identità assolutamente inviolabile, e inassimilabile a quella del resto del gruppo, e che una quota di estraneità è ciò che tutela il gruppo famiglia dall’incesto, dal sopruso e garantisce la maturazione della singolarità.

Dott.ssa Stefania Boldrini